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A tu per tu con Emilio Nigro

In occasione della seconda ristampa della silloge Edipo in fuga abbiamo fatto il punto con Emilio Nigro, autore della raccolta. 

Nelle tue poesie affronti temi molto attuali. Quali sono le riflessioni alla base della tua silloge?

Il poetare elude qualsiasi pianificazione programmatica, argomentativa. Non presuppone obiettivi premeditati. Questo non significa sia spinta dall’incoscienza, dal caso – o forse sì, pensando alle parole del filologo tedesco Otto, dei primi del Novecento, che definisce la poesia la parola sonora con cui si rivela l’essere e il poeta, qualcuno che pensa parlando; il caso quindi assume valenza di fato -. Insomma, nessuna riflessione a monte scaturisce la produzione, piuttosto un volere urgentemente dire cosa non trova luogo nella consuetudine quotidiana, strutturata per convenzioni sociali e linguistiche nette, ben determinate. E allora il verso è il linguaggio fuori dalla gabbia, primitivo, la forma di interazione più pura, nel tentativo di riprodurre la realtà, l’altro da sé, il sentimento. Sono suggestioni che muovono la mia produzione. Impressioni. E come chi riproduce su tela cosa osserva, passato per il proprio interiore e mutato nelle forme, nelle luci, nei contorni nell’esito materico, sporco i fogli d’inchiostro per cosa i miei occhi vedono, per cui la mia sensibilità è scossa, per cui la ferita sanguina. Se il tentativo si fa corale, se la mia voce è acqua corrente in cui specchiarsi, allora si ricrea un ascolto. Ecco, se si deve individuare un motivo del poetare è la risonanza della parola. Qualcosa che non resta singolare. Che non resti soggettiva. In un tempo di individualismo imperante, penso sia fondamentale trovare luoghi, momenti, strumenti corali.

Chi è l’Edipo contemporaneo?

Edipo – l’eroe tragico, e per la tragedia si arriva al compimento della distinzione tra giustizia e vendetta, quindi un anelito al sano, a ciò che deve essere, all’umano – è un uomo onesto, che dice la verità, e che compie atti impuri inconsapevolmente, orientato da un destino incontrovertibile. Topico della concezione greca l’uomo costretto al delitto perché accerchiato dal fato, e per questo assolto, associando ellitticamente la concezione filosofica che ciò che si compie è perché deve essere compiuto, al di là della propria volontà, del proprio arbitrio. Edipo si toglie la vista, perché non ha saputo vedere, e fugge da Tebe perché assume colpe di cui era innocente, e nella cecità, nel suo errare punitivo, acquisisce chiaroveggenza.

La poesia dà dignità a ciò che si vede ma per convenienza sociale si tace, si trasfigura, preferendo la maschera, la finzione, il teatrino squallido delle scene dell’andirivieni quotidiano. È più facile stare al gioco ipocrita, delle danze sociali, che parlare chiaro, dire le cose come stanno, dire la verità. La poesia allora si fa strumento meraviglioso di verità. La verità del sentimento, qualunque esso sia anche la rabbia, la verità del silenzio, ridà dignità alle piccole cose, alla libertà di scelta, di scegliere anche di essere diverso. E condensa nella brevità l’ethos dell’esistere, dell’essere.

Edipo è una sovrapposizione personale. E universale. Dell’uomo che cerca se stesso nonostante il destino. E non si è, ancora oggigiorno, secondo le possibilità di nascita, geografiche, di ceto, economiche? Non è ancora oggi il destino in fondo a dettare legge? I versi, sono testimonianza di una ribellione al destino. Nel mio caso. Un memorandum di salvifica libertà.

In che modo la poesia può offrire una diversa prospettiva della realtà?

Semplicemente perché traduce la prospettiva intima. Non tanto una tendenza alternativa, ma qualcosa di squisitamente umano. Riproduce il punto di vista interiore, il pensiero, attraverso l’arte. Praticare la poesia può mutare l’approccio sensibile al circostante, addolcisce, o infervora, muta gli stati di coscienza. Che non significa etero-direzione, ma nutrimento d’anima, conforto, vicinanza nel sentire o vivere determinate circostanze sentendosi meno soli. Le prospettive cambiano letteralmente e fisicamente se ci spostiamo dall’asse solita del nostro sguardo. Se guardiamo un cielo sdraiati per terra o da l’oblò di un aeroplano, per esempio. Se vediamo spuntare un germoglio dall’alto o dal livello della radice. Se si guarda una persona di spalle o di profilo. Cambia la visione.

Quando è una buona poesia, un caleidoscopio di punti di vista e quindi di visioni si aprono al lettore. Ed è un arricchimento, culturale e ricreativo. Condensato in poche righe. Nei suoni. In un linguaggio destinato a scorrere dentro e macchiare.

La poesia può essere uno strumento per creare ponti? Se sì, in che maniera? 

Deve creare ponti la poesia. Deve avvicinare il prossimo. Nell’ascolto. Non necessariamente sedurlo, anzi, potrebbe anche irritarlo, offenderlo, provocarlo, purché si esca dall’indifferenza, purché si esca da sé, dai lavori forzati, da cosa la società impone d’essere. Con i versi non si fa rivoluzione, né è mia volontà, è piuttosto il mio modo di comunicare con l’uno, con la folla, con me stesso, anche con Dio. È il mio incidere con suoni cosa mi vince, mi soffre, o mi entusiasma, con parole che non siano quelle che ci si aspetta di sentire dire. Ognuno di noi ha una propria e unica impressione sugli accaduti, sulle cose del mondo. Queste unicità sono originate da un sentire comune, da elementi riscontrabili massivamente. In altre parole, nella unicità c’è una comunanza di giudizio, di assunzione sensibile dell’oggetto. Si è simili anche nel comprendere, ripeto pur differenziandosi, perché comunemente assorbiamo con gli stessi sensi, gli stessi organi di interpretazione. La cultura fa la differenza, ovvero il bagaglio che ciascuno struttura, cultura come atteggiamento, centrando l’aspetto semiotico della parola (colere, coltivare). Si ha quindi un comune sentire e intendere differenziato da cosa ciascuno coltiva (intimamente, intellettualmente) durante la propria esistenza. E i versi sono ponti, trait d’union, perché ci si affacci sullo stesso fuoco, perché ci si riconosca.

Poesia e teatro. Nella tua produzione è un legame solido. Come si fondono queste due forme espressive?

Scrivo poesia da sempre. Il primo vagito. Di teatro e per il teatro da una ventina d’anni. Ultimamente il sistema delle consorterie, teatrali, di tutta quella gente con poco spessore artistico e piuttosto “politico” che si fiondano da avvoltoi sulle comunità d’arte depredandole e facendone salotti di inciuci e interessi personali (sono soprattutto borghesi di agiata famiglia che possono permettersi di bivaccare e ricreare un sistema di interessi che nella vita non riescono adottandolo così in una comunità che per definizione dovrebbe essere di diversi, nel senso più bello del termine), il disgusto per queste consorterie, e il lottare a viso aperto agitando la verità, ha fatto sì che me ne stia un poco in disparte. Consorterie che riducono l’evento artistico a sollazzo guidato dai propri gusti e secondo il ritmo della propria vita sessuale, citando Roberto Vecchioni. Relegato a esiti di clientelismo spudorato, con la legge del più forte vigente. Continuo comunque, il teatro, a praticarlo, a viverlo, a scriverne, a fruirne e ricrearne come fatto d’arte e non nello schifo in cui riversano queste consorterie. La comunità poetica è diversa. Forse perché circola più sensibilità. Come in tutti i consorzi umani, non mancano i buffoni e chi crede di essere superiore, chi si mette in competizione, chi corre per puro arrivismo, senza arrivare a volare mai. Ma circola, ripeto, più sensibilità, e non essendoci quasi niente da spartire, i poeti per la maggior parte cercano pubblico, ascolto, cercano conforto, cercano l’altro. A parte questa disgressione, teatro e poesia si fondono come tutte le arti possono contaminarsi perché prodotti del genio umano. Perché prodotti dalla bellezza. Il teatro ha una parola più d’uso, è una rappresentazione più sovrapposta, più carnale, è arte viva, una delle poche che avviene fisicamente, contemporaneamente alla fruizione. La parola del teatro è azione. La parola poetica è un’azione diversa. Anche una non-azione, da cui ci si può “smuovere”. La poesia è il canto con cui Orfeo tenta di sedurre il padrone dell’Ade…

Sogno una mia compagnia di teatro poesia.

Quali sono i tuoi riferimenti letterari? E i tuoi libri-radice, quelli che hanno lasciato un segno nella tua formazione? Quale è lo stato di salute della poesia oggi? Nell’epoca dei social e delle narrazioni brevi, c’è ancora posto per i versi?

Non ho riferimenti veri e propri. Né maestri. Certo, banalmente il leggere molto contamina parole, stile, voce, suono. Ho degli amori piuttosto. Baudelaire, Giovanni Raboni, Montale, i poeti erotici Latini, i lirici Greci, Garcia Lorca, Achmatova, il primissimo Franco Arminio (fino a “cedi la strada agli alberi”), Pessoa, Majakowskij, Evtushenko, i canti del popolo Curdo, Hikmet, Kavafis, Alessandro Cannavale, Gozzano fuori dai giochi di rima e di metrica, Nantembo, Tesshu e tutti i grandi degli Haiku, Pasolini, Mallarmé, Rimbaud. Potrei andare avanti all’infinito. Dei contemporanei mi piacciono molto alcuni, non li cito per pudore, per non creare fazionismo. Mi riferisco ai poeti della comunità, quelli che cercano di fare gruppo, di parlarsi, di promuoversi e di sostenersi reciprocamente. Che agitano la poesia in modo più o meno sincero, perché mossi e non per gloria o vanità. Mi fanno sorridere quelli che fanno i “capetti” e creano cricche guardando con sospetto o antipatia l’altro. Questi atteggiamenti fanno male. In genere proprio al vivere comune. Ma esistono, come esistono i fiori del male. Ci sarà sempre posto per la poesia, come si sarà posto per cosa è dentro l’uomo, fuori da sé. La poesia è la forma sonora del pensiero, dell’essere. Era Deleuze a prevedere un ritorno al dominio della parola, della scrittura proprio, una delle prime forme di relazione interrazziale. Non stiamo assistendo proprio a questo con l’uso della parola scritta bulimica sui social?

I tuoi prossimi progetti?

Ho dei progetti di contaminazione della poesia con altri linguaggi, affiancandomi ad artisti visivi. Un progetto sulle Heroides di Ovidio, teatrale, e poesie e racconti che cercano vita.

 

 

 

 

 

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